Il Parco Suburbano della Valle del Treja è un’area protetta del Lazio, vicinissima alla capitale ed è compresa nei territori di Mazzano Romano e Calcata. E’ una superficie di circa 600 ettari e si estende in una zona abbastanza impervia, una gola ricoperta da una fittissima vegetazione forestale in cui scorre il fiume Treja. Il fiume ha solcato profonde spaccature nel tufo, ha creato pericolose pareti verticali nelle rocce vulcaniche creando un paesaggio tanto inospitale quanto affascinante: le forre. Il tratto in cui il fiume crea le cascate, il laghetto e le piccole pozze è in estate molto visitato tanto da renderlo vera attrattiva turistica e balneabile. Qui che comincia la mia ricerca fotografica, nel luogo che solitamente è riempito dal fragore dei romani che cercano riparo dal caldo afoso della città.
Ho però cercato di carpire la magia delle forre in momenti dell’anno in cui io ero il solo visitatore dell’area. Ho accuratamente scelto le condizioni meteorologiche meno indicate per visitarlo, prediligendo momenti di pioggia freddo e nebbia sono riuscito a confrontarmi con l’aspetto più selvaggio di questo luogo. Ho rubato al parco la sua anima mistica che sfugge ai più, un’anima pura e timida che si nasconde e fugge dagli sguardi indiscreti di chi viene a violare la sua intima quiete. La Valle del Treja non si è accorta di me che mi aggiravo silenzioso tra le invernali nebbie mattutine, di me che goffamente e lentamente mi muovevo tra i muschi delle sue rocce, non si è accorta di me che cercavo nel buio della notte di carpire i suoi più intimi segreti. E così, presa alla sprovvista in orari improbabili in cui essa è abituata a stare sola, la vallata si è lasciata ritrarre da me che troppo spesso rimanevo incredulo difronte a tanta inaspettata bellezza. E allora ho avuto difficoltà a premere il pulsante di scatto quando tra i fumi delle nebbie ho visto spuntare i raggi del sole i quali disegnavano nel grigiore di un giorno ancora non nato dei capelli d’oro, ho avuto difficoltà a ritrarre lo splendore delle cascatelle le cui acque sanno intessere intrigate trame di riflessi in movimento che rubavano ogni mia attenzione, sono a stento riuscito a scattare quando i miei occhi erano rapiti dai grovigli delle radici che come una mangrovia stringevano in un feroce abbraccio le rocce del fiume; a stento riuscivo a comporre un’inquadratura di successo poiché troppo spesso sentivo l’esigenza di avvicinarmi alle “cose del fiume”, volevo toccare con mano ogni cosa, volevo che la mia macchina fotografica potesse imprimere un qualche tipo di esperienza tattile da regalare a chi avrebbe guardato le mie immagini. Desideravo poter imprimere sul mio sensore tanto la percezione del freddo che sentivo immerso fino alla cintura nel letto del fiume in gennaio quanto il piacevole tepore dei raggi del sole che violenti si fanno largo nel bosco di Monte Gelato a mattino inoltrato.
Posso in definitiva dire che questo tratto di bosco laziale, questa Valle del Treja che ho imparato ad amare come una seconda casa, ha un’anima doppia: spesso ha dettato lei le regole del gioco e non mi ha permesso di entrare fermando col fango e l’acqua alta ogni mia volontà di procedere lungo i suoi sentieri, ha deciso lei quando e cosa darmi in cambio della perseveranza che ho dimostrato nel volerla conoscere. Altre volte invece ha lasciato che mi nascondessi nella sua più intima essenza, proteggendomi da una città da cui troppo spesso sono voluto scappare, facendomi respirare l’alito della sua anima di brume mi ha trasmesso una serenità primordiale con cui avevo bisogno di confrontarmi. Mi ha dato un posto dove rifugiarmi in silenzio ed io, stupito di quell’inattesa ospitalità, ho lasciato che la sua acqua lavasse via ogni mia preoccupazione dandomi l’opportunità di ritrovare, pur se per poco, quella parte selvaggia di me sepolta da troppe cose ma che ancora mi appartiene a livello cromosomico.
Sono rinato fumo e sospiro, la feroce bellezza di quest’angolo di mondo mi ha trasformato.